Editoria

E’ un buon programma quello di vivere per tutta la vita nel proprio domicilio?

18.09.2017
Sigot









Le riserve verso l’istituzionalizzazione della persona anziana


Editoriale Prof. Palleschi

Personalmente se dovessi dare una risposta secca, non avrei dubbi nell’esprimere la preferenza per la mia casa.
Le Incertezze potrei averle solo se ipotizzassi di trovarmi in condizioni particolarmente sfavorevoli da vari punti di vista e soprattutto nella necessità di dover essere assistito in maniera così intensa, continuativa e prolungata da escludere ogni possibilità di gestione nella mia residenza abituale.
Da questo discorso escludo i ricoveri in condizioni di emergenza che il più spesso si risolvono in un breve periodo di tempo o sfavorevolmente o con il ritorno del malato a casa a seguito del miglioramento clinico (se possibile della guarigione).
Prescindendo dai miei atteggiamenti di fondo, devo aggiungere che la casa è il luogo di vita ed in parte di cura prediletto dalle persone di qualsiasi età, ma le profonde modificazioni socio familiari e l’estensione del lavoro femminile hanno aumentato le difficoltà di assistere a domicilio i soggetti anziani con grave compromissione dell’autonomia.
Forse negli ultimi anni, persino da parte di molti Geriatri, si è affievolita la tendenza ad evitare i ricoveri permanenti e a considerarli alla stregua di condanne senza possibilità di appello o come veri e propri arresti domiciliari.
Prima ancora di svolgere questo problema nei suoi molteplici aspetti, vi dico subito che una parte significativa dei Geriatri ha un atteggiamento di fondo contrario all’istituzionalizzazione del malato anziano, intendendo con questa espressione qualsiasi ricovero a degenza prolungata o permanente.
I motivi di queste riserve risiedono nel fatto che l’obiettivo fondamentale della Geriatria è quello di migliorare la qualità di vita della persona anziana ed in particolare di mantenere (e/o recuperare) la sua efficienza, la sua autonomia.
E’ evidente che se si riuscirà ad ottenere un miglior grado di autonomia del paziente anziano compromesso, minore sarà il bisogno di assistenza continuativa e conseguentemente diminuirà il ricorso all’istituzionalizzazione.
I mezzi per arrivare a questo risultato non sono solo quelli classici della Medicina e della Fisiatria, ma consistono in una originale ricerca (e nella eventuale rimozione) di tutti i fattori che incidono sfavorevolmente sulle capacità funzionali della persona anziana e che va sotto il nome di Valutazione Geriatrica Multidimensionale (VGM).
L’istituzionalizzazione contrasta con una sana concezione della vecchiaia che va valorizzata, soprattutto se attiva e non solo in senso fisico. Ora, indipendentemente dalla precisa tipologia degli Istituti (RSA, reparti di lungodegenza, case di soggiorno per anziani, ecc.), il pericolo che l’obiettivo fondamentale del ricovero venga avvertito e perseguito come una custodia della persona anziana, più o meno malata, più o meno compromessa nella sua efficienza, è ancor oggi molto elevato. Basti al riguardo tenere presente la indecorosa ed irrazionale dizione di Case di Riposo di molte di queste istituzioni.
In numerosi decenni di attività ospedaliera e professionale non ho mai visto morire un malato per l’eccessivo lavoro muscolare imposto, mentre ho visto molti malati anziani rimanere invalidi ed anche morire perché costretti ad una forzosa immobilità a letto non tanto dalla gravità di per se stessa delle malattie responsabili, ma da una strategia assistenziale inadeguata ed incompetente.
Non si può dire che l’obiettivo primario dei vari Istituti per anziani sia il miglioramento funzionale dei malati ricoverati. Questo obiettivo semmai costituisce il target di qualificati Istituti di Riabilitazione che non prevedono mai degenze permanenti e neppure eccessivamente prolungate, che quando si verificano sono molto sospette.
Ancor più lontana dalla mentalità e dalla prassi abituale degli istituti di ricovero per anziani è la individuazione e la conseguente possibile rimozione di tutti i fattori che incidano sfavorevolmente sull’autonomia della persona. Per essere ancor più esplicito non posso non fare un riferimento all’indecorosa ed inveterata abitudine (presente anche negli ospedali) di ricorrere ai sedativi in presenza di malati “disturbanti”.
Tra i numerosissimi fattori che inducono ad un ricovero permanente non sono estranee motivazioni di ordine economico. Il riferimento non è tanto all’evenienza di una più vantaggiosa gestione economica in una struttura (se convenzionata), quanto all’opera di promozione a favore degli Istituti per anziani da parte di medici interessati economicamente a questa tipologia di gestione sanitaria. E’ noto che una delle opportunità professionali più frequenti per i primari geriatri e medici in pensione sia quella di dirigere un istituto per anziani. Il Geriatra impegnato e convinto si trova invece a disagio in una simile prospettiva ed anzi è portato a ritenere che il ricovero permanente di un malato anziano rappresenti una sconfessione, una sorta di fallimento della sua strategia terapeutica e gestionale, non essendo riuscito a far recuperare un minimo di autonomia al suo paziente e a facilitargli una vita piena ed indipendente.
Questo mio documento vorrebbe mettere in risalto l’esigenza di scongiurare l’istituzionalizzazione permanente con il mantenimento di un grado accettabile di autosufficienza, avvalendosi in modo precoce, selettivo, continuativo, di tutte le possibilità che offre un’eccellente riabilitazione e riattivazione geriatrica.
Desidero però procedere con qualche altra osservazione di carattere etico-solidaristico. E’ poco generoso ed ingiusto espellere di fatto dal loro contesto familiare, dal loro domicilio abituale, tante brave persone che hanno dato molto alla famiglia, alla società e allo stesso tempo liberare dalle patrie galere non pochi tra i peggiori delinquenti.
Per sperare di contenere il problema della istituzionalizzazione delle persone anziane, è auspicabile che si avverta da parte della comunità l’esigenza di proteggere i soggetti più deboli, più fragili.
Il pericolo di concludere l’esistenza fuori dalla propria casa non è uguale per tutti i cittadini. Si tratta generalmente di soggetti molto anziani, con patologie croniche disabilitanti, a volte con declino cognitivo, spesso con carenze socio- assistenziali e scarsamente o per nulla produttivi. E’ ovvio che verso soggetti di questa tipologia si può nutrire una forte considerazione solo in presenza di un grande rispetto per la persona di per se stessa. Questa sensibilità non è posseduta da tutti, a volte neppure dai medici.
Nell’ ambito delle condizioni da tenere presenti nell’avvio ad un reparto a degenza permanente dovrebbe essere sempre inequivocabilmente rispettata la libertà di decisione del paziente. Questo requisito non è sempre presente. Infatti al malato ricoverato in Ospedale che ha qualche difficoltà a tornare al proprio domicilio, si prospetta genericamente l’opportunità di continuare le cure in un’altra struttura, senza specificare chiaramente che si tratta a volte di strade senza ritorno.
Se si chiede (come ho fatto io personalmente) a pazienti degenti da molto tempo in reparti di lungodegenza e perfettamente lucidi, chi abbia ritenuto impossibile la sua permanenza in casa e in quali precise circostanze si sia presa la decisione, si assiste spesso ad una mancata risposta. Tutto questo si verifica perché in occasione di ricoveri ospedalieri e in presenza di malattie disabilitanti che rendono difficile la gestione della “convalescenza” o della”stabilizzazione” in casa, si preferisce soprattutto da parte di familiari poco disponibili, o gravati da reali difficoltà, far proseguire le cure in altri istituti sanitari, con la speranza inconfessata, a volte inconscia, che si tratti di una “sistemazione “ definitiva.

La soluzione non è necessariamente censurabile a condizione però che venga salvaguardata la volontà del malato e che rappresenti realmente l’indicazione migliore per la sua qualità di vita.
In ogni caso la scelta di rimanere nella propria casa o di ricorrere invece ad un ricovero in reparto non ospedaliero in grado di accogliere l’ospite malato per periodi protratti (ad esempio in RSA) o in maniera permanente si presenta molto complessa. E’ opportuno pertanto che la decisione venga compiuta con l’aiuto di persone competenti nel settore (ad es. medici geriatri) in grado di esprimere un parere adeguato e non improvvisato, come si può verificare di fronte alle pressioni di dimissione durante un ricovero ospedaliero.
In molti Paesi si è cercato di ridurre l’istituzionalizzazione delle persone anziane anche per motivi economici, incrementando e migliorando l’ADI (Assistenza Domiciliare Integrata), con integrazione tra esigenze sanitarie e quelle socio-economiche.
Devo precisare che lo scopo fondamentale dell’ADI non è tanto quello di consentire una riduzione dei ricoveri in residenze di varia tipologia, quanto quello di migliorare l’indipendenza e la qualità di vita dei malati anziani fragili e di ridurre il carico assistenziale alle famiglie gravate da compiti assistenziali a volte ingiusti ed insostenibili.
Non si può escludere comunque che la maggiore attenzione rivolta ai mezzi domiciliari di assistenza possa allontanare per così dire il pericolo di una degenza permanente.
Se in ambito geriatrico l’istituzionalizzazione è considerata il più spesso come un evento sfavorevole, ci si può chiedere come mai non si analizzino gli indici predittivi di ricovero permanente come veri e propri fattori di rischio. Va precisato che in Clinica geriatrica esistono varie scale di disabilità, vi sono scale di prognosi riabilitativa, test di fragilità, scale di intensività assistenziale, ma vi sono scarsi riferimenti di indici, soprattutto precoci, di istituzionalizzazione.

Io avevo proposto per i malati anziani che presentavano un rischio di concludere l’esistenza al di fuori della propria casa un mio schema valutativo ( Palleschi M.: Come ridurre il rischio di istituzionalizzazione. Geriatria 2011; XXIII:93-96). Era previsto un punteggio per i vari fattori di rischio: età avanzata, presenza di polipatologia, di malattie invalidanti, carenze dello stato socio-economico, vedovanza, assenza di figli, storia recente di uno o più ricoveri ospedalieri, ecc.
La proposta non ha avuto un seguito, anche perché ritengo mancasse di una soddisfacente validazione. Va ancora precisato però che i non grandi consensi a proposte di questa tipologia e la stessa scarsità dei riferimenti prima accennata può essere spiegata oltre che con la complessità e soggettività del problema, anche con il fatto che il ricovero in Istituto, ad esempio in RSA, è visto con riserve da una parte impegnata dei Geriatri, ma da molti altri è considerata non come un pericolo ma come uno dei nodi principali della rete assistenziale geriatrica.
Va comunque tenuto presente che tutto quanto finora è stato considerato di sfavorevole nei riguardi dell’istituzionalizzazione ha una notevole limitazione quando ci si trovi in condizioni molto sfavorevoli della persona.
In sostanza la prospettiva non esaltante di concludere la vita al di fuori del proprio domicilio abituale, va analizzata anche o soprattutto in relazione alle condizioni di salute, economiche, assistenziali, soggettive, affettive, di coesione familiare, ecc. Non raramente assistiamo ad una tale precarietà dei mezzi di assistenza e dei rapporti socio-familiari, che il ricorso all’Istituto diventa una scelta quasi obbligata.

Massimo Palleschi