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Il dolore cronico nelle Malattie Reumatiche

15.03.2017
Sigot

di Stefano Coaccioli 

Il dolore cronico degenerativo (DCD) rappresenta un problema sanitario emergente e di significativa importanza sia sul piano epidemiologico e socio-economico sia a livello clinico e terapeutico. 

Nel nostro Paese circa una persona su quattro lamenta DCD, di natura non-neoplastica dunque, e la metà di questa popolazione lo stima di grado severo e ne riferisce una durata che supera, in media, i sette anni. Viene stimato inoltre, che circa il 20-25% degli accessi negli ambulatori di medicina generale è dovuto a problematiche legate al dolore cronico, così come – nei reparti ospedalieri internistici – circa un paziente su cinque lamenta dolore cronico. Sul piano clinico è di tutta evidenza che le condizioni maggiormente rappresentate sono costituite da patologiche osteo-mio-articolari, mentre sul piano terapeutico non si rileva uniformità di approccio: in Italia si osserva infatti il più basso utilizzo di analgesici semplici e di oppiacei ed il più alto impiego di anti-infiammatori non-steroidei (FANS).In maggior dettaglio, si fa qui riferimento alla più estesa indagine sul dolore cronico che sia mai stata realizzata nel nostro continente. L’indagine, denominata Pain in Europe Survey, è stata condotta su un campione rappresentativo della popolazione generale, formato da quasi 50mila persone, ed ha avuto come obiettivi la stima della prevalenza del dolore cronico in Europa, l'individuazione delle cause e la valutazione quantitativa del dolore stesso, l'impatto del dolore cronico sulla qualità di vita e le linee terapeutiche impiegate nella pratica clinica. I Paesi dove è più elevata la prevalenza di dolore cronico sono la Norvegia, l'Italia e la Polonia, mentre la Spagna appare la meno interessata dal problema, con un indice di prevalenza generale pari al 19%. In Italia soffre di dolore cronico il 26% della popolazione, la metà della quale riferisce dolore di grado severo; la durata del dolore cronico supera i due anni nel 49% della popolazione, in quasi il 30% la sintomatologia perdura per oltre 15 anni, mentre un terzo della popolazione riferisce dolore senza alcuna interruzione. Circa le cause responsabili di dolore cronico, è stato confermato che le malattie reumatiche rappresentano le patologie più diffuse, con il 34% di artriti croniche e di osteoartrosi che, con la lombalgia, la fibromialgia ed il dolore da fratture osteoporotiche, portano a quasi il 70% l'incidenza di reumopatie nella genesi del dolore cronico. Si può allora affermare che la malattie reumatiche costituiscono la più vasta area nosografica responsabile di dolore cronico e che, per i diversi intrinseci meccanismi patogenetici, condizionano una vera e propria patologia in senso stretto e indipendente dalle cause che la sottendono, che si compendia nel termine di DCD.
L'impatto sulla qualità della vita che il DCD comporta è devastante: oltre il 40% dei pazienti riferisce di non poter svolgere in modo autonomo le normali attività della vita quotidiana, mentre addirittura un paziente su sei arriva a desiderare la morte. Ogni anno vengono perse circa quattro settimane di impiego; il 26% dei pazienti teme che il DCD influenzi la propria capacità lavorativa, mentre un paziente su cinque riferisce la perdita del lavoro ed infine, oltre il 20% dei pazienti va incontro a depressione ed ansia. La survey europea ha confermato che, sul piano clinico, sono i medici di medicina generale (70%) i sanitari ad essere più frequentemente consultati, mentre ortopedici (27%), neurologi (10%) e reumatologi (9%) vengono contattati in un secondo tempo. A fronte di una generale soddisfazione (62%) circa il trattamento analgesico (smentita poi da una più attenta valutazione – vedi in seguito), oltre il 40% dei pazienti ritiene che il medico rivolga la sua attenzione in modo preponderante verso la malattia di base e non verso il dolore in senso stretto, tanto che circa un paziente su quattro sospende, o non inizia neppure, la terapia programmata. E' in questo campo che la valutazione clinica del DCD appare carente: l'attenzione alla biometria del dolore, la determinazione quantitativa e qualitativa del DCD è in grado non solo di ampliare la conoscenza del paziente, ma anche di migliorarne la compliance. La survey europea inoltre, ha documentato che sul piano strettamente terapeutico i FANS rappresentano le molecole più frequentemente utilizzate (44%), mentre gli oppiacei deboli sono impiegati nel 23%, il paracetamolo nel 18% e gli oppiacei forti nel 5% dei casi. In Italia si è registrata una situazione affatto particolare, con i FANS prescritti in quasi il 70% dei casi, mentre oppiacei deboli e paracetamolo sono consigliati in non oltre il 9 ed il 6%, rispettivamente, fino agli oppiacei forti che non raggiungono nemmeno una unità percentuale. A conclusione della survey la maggioranza dei pazienti (64%) ritiene comunque inadeguato il trattamento di fondo del DCD per la maggior parte del tempo e che sia necessario uno sforzo più consistente nella terapia del dolore inteso come malattia.
Si deve affermare oggi con forza che il DCD debba e possa trovare una propria collocazione nosografica volta ad abbandonare la consuetudine di non valutare il dolore come parametro clinico di per sé ed i falsi miti, rappresentati dal dolore come conseguenza ineluttabile del trascorrere del tempo e dall’impossibilità di trattare la sintomatologia in modo adeguato e, se necessario, aggressivo. Queste considerazioni vengono anche, e soprattutto, dalla evidente presenza di quello che può essere definito come “il ciclo del dolore” reumatologico (Figura 1): una condizione dolorosa è di per sé in grado di ridurre la mobilizzazione dell’articolazione interessata, alla quale fa seguito un adattamento e una degenerazione conseguente che esitano nel mantenimento della sintomatologia dolorosa stessa. Un circuito autoriverberante che è caratterizzato dalla cronicizzazione del dolore che trova luogo di inizio sia nelle condizioni tipicamente degenerative sia nei quadri infiammatori i quali, nel corso del tempo, si concludono nella degenerazione articolare. A questo proposito si rimanda alla recente legge n. 38 del 15.3.2010, avente per oggetto “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”.
Il DCD reumatologico è didatticamente distinto sul piano semeiologico nelle seguenti forme: articolare, osseo, extra-articolare e lombare.Il dolore articolare, a sua volta, si suddivide in degenerativo, infiammatorio e bimodale. Il dolore degenerativo insorge durante le ore diurne e viene accentuato dal movimento articolare; non è quindi presente se l’articolazione è a riposo e non risveglia il paziente durante la notte; non è accompagnato dai segni della flogosi articolare e non documenta aumento degli indici di flogosi. Al contrario il dolore infiammatorio compare durante il riposo dell’articolazione ed è in grado di risvegliare il paziente nelle ore notturne; si accompagna a prolungata rigidità mattutina al risveglio; durante il movimento tende a ridursi; è caratterizzato dai tipi segni dell’infiammazione (tumefazione, calore (termotatto positivo), dolore ovviamente, rossore (solo nelle artriti da microcristalli) ed impotenza funzionale): appaiono quindi i segni che Aulo Celso aveva individuato secoli addietro; è confermato dall’incremento dei dati siero-immuno-ematologici tipici della flogosi: velocità di sedimentazione eritrocitaria e proteina C-reattiva costantemente aumentate con correlazione positiva con il quadro clinico, aumento del fibrinogeno e delle mucoproteine, incremento della ferritina con piastrinosi, leucocitosi ed anemia da disordine cronico nelle poliartriti e nelle connettiviti sistemiche croniche autoimmuni. Il dolore bimodale, che segue i dettami del dolore infiammatorio, viene riferito in modo particolare al tratto lombare del rachide nelle condizioni infiammatorie negative per il fattore reumatoide: presente al risveglio con rigidità significativa, tende a ridursi durante le ore diurne per ricomparire alla sera. Il DCD osseo, in questa trattazione, è quello che deriva dalla frattura di uno o di più corpi vertebrali in corso di osteoporosi, mentre per il DCD extra-articolare si fa riferimento qui ad una sindrome funzionale reumatica particolarmente frequente, quale la fibromialgia ed infine, la lombalgia che consegue a numerose condizioni tanto reumatiche quanto non-reumatiche e che costituisce un capitolo nosografico a sé stante.E’ importante notare che il dolore articolare reumatologico, nella sua espressione di acuzie, risponde alla sollecitazione solamente dei recettori articolari di IV tipo (gli altri essendo recettori meccanici, di moto e di pressione), rappresentati dai nocicettori. Vale la pena di ricordare che i nocicettori sono espressi sono da alcune strutture articolari: la capsula articolare, i legamenti, le guaine tendinee e le entesi, mentre la cartilagine, i menischi, i dischi intervertebrali e la stessa membrana sinoviale ne sono sprovvisti. La localizzazione dei nocicettori contribuisce a spiegare la patogenesi dei diversi tipi di dolore articolare in reumatologia, mentre per la cronicizzazione del dolore valgono i principi fisiopatologici illustrati in altra parte.E’ certamente necessaria una corretta valutazione clinica della sintomatologia dolorosa riferita dal paziente. La raccolta della storia clinica è, come sempre, fondamentale: si compendia nell’anamnesi, remota e recente; nell’analisi delle caratteristiche del dolore, in termini di localizzazione e irradiazione, di qualità (aggettivazioni qualitative) e di quantità (scale dedicate come la VAS, scala analogico-visiva), di periodicità nell’unità di tempo e di durata; si completa con l’esame obiettivo generale e locale, arricchito dalla valutazione neurologica. Sono dunque particolarmente importanti le notizie relative alla qualità, alla quantità ed allo sviluppo temporale del dolore cronico, così come è essenziale rilevare la presenza dei momenti nei quali si manifesta il dolore acuto episodico intenso: il breakthrough pain. Un sostanziale aspetto critico nella valutazione di un paziente riguarda la distinzione fra dolore nocicettivo e dolore neuropatico, in ordine al fatto che il primo è generato dalla stimolazione periferica di fibre nervose normali che trasmettono al sistema nervoso centrale uno stimolo algogeno generato da infiammazione ovvero da deterioramento di molteplici strutture osteo-mio-articolari, il secondo – affatto subdolo, specialmente in reumatologia, perché lento a presentarsi e di non facile discriminazione clinica – che fa seguito all’adattamento strutturale e funzionale a carico sia del sistema nervoso centrale sia di quello periferico: in altre parole, il dolore cronico neuropatico in reumatologia si può manifestare e può automantenersi sia in modo primitivo, ma anche secondariamente, in assenza dello stimolo algogeno iniziato con la nocicezione. In estrema sintesi, utile per quanto ricade sulla terapia farmacologica, il dolore cronico – misurato su scala analogico-visiva (VAS da 0 a 10) – si definisce lieve fino a 3/10, moderato fino a 6/10 e severo oltre 6/10: non è superfluo notare come già un dolore pari a circa 3/10, quando presente in modo cronico, comporti già un grado di sofferenza sufficiente a suggerire l’impostazione di un trattamento adeguato ed aggressivo. La valutazione clinica del DCD rientra dunque nella biometria del dolore anche in senso cronobiologico. Vanno studiate caratteristiche qualitative e quantitative, insieme a cosa sia in grado di accentuare ovvero di alleviare il dolore; è indispensabile considerare il comportamento del dolore in un arco temporale generalmente compreso nelle 24 ore ed in relazione all’attività o meno di un soggetto; è utile valutare infine, l’impatto del dolore sulle diverse attività della vita quotidiana, sulla durata, qualità e quantità del sonno e sulla qualità della vita in generale. Sono molteplici, in questo ambito, le scale di valutazione alle quali si rimanda per una più completa trattazione. 

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