Editoria

Il Geriatra di fronte alla vecchiaia

10.10.2017
Sigot

Editoriale - Prof. Massimo Palleschi





Credo che il tema della vecchiaia sia pesantemente influenzato dalla tendenza all’ottimismo o al pessimismo della persona che si trova in questa fase dell’esistenza. Un soggetto avvelenato verso se stesso, il prossimo e la vita, avrà molte possibilità di vedere e di vivere la vecchiaia come un periodo fortemente negativo.
La percezione della vecchiaia risente inoltre dei modelli culturali che hanno formato la persona. Ad esempio i Giapponesi hanno una sensibilità molto diversa da noi e chiamano la vecchiaia “fitsumen”, l’età della speranza, della realizzazione. Gli americani indicano l’anziano con il termine “emeritan”, cioè vedono in lui il soggetto che ha maturato notevoli capacità attraverso l’esperienza.
In Italia si usa poco l’espressione vecchio, perché nell’accezione comune assume un significato sgradevole, come di un oggetto consumato, logoro, addirittura da buttar via come si fa con un paio di scarpe.
Io impiego intenzionalmente più spesso la parola vecchio, anziché anziano, avendo una gran considerazione della vecchiaia e senza sentire di attribuire alcuna qualità negativa ad una persona di età avanzata.
Al di là degli aspetti terminologici, la percezione del processo di invecchiamento spesso si associa a quella di due fenomeni molto sfavorevoli, il declino funzionale fino alla perdita dell’autosufficienza e la morte.
Questi tre eventi sono percepiti frequentemente in modo angoscioso, anche se non mancano le persone che si adattano più o meno bene alla loro rappresentazione. I Geriatri, oltre tutto per aver enfatizzato l’utilità della Geragogia, dovrebbero spesso appartenere al gruppo più sereno e giudizioso, ma mancano dati che convalidino un’ipotesi del genere.
Sempre nei riguardi del problema Geragogia, esprimo il rammarico di aver perso noi Geriatri l’opportunità (ma vi è sempre tempo di rimediare!) di promuovere e svolgere un’intensa e diffusa opera di educazione alla vecchiaia. Personalmente ho cercato di raccogliere le mie piccole idee sull’argomento nel libro “Impariamo a vivere, Impariamo ad invecchiare” 1.
Le conclusioni di queste mie riflessioni (e documentazioni) sono diverse, ma qui mi preme sottolineare il seguente concetto: mentre il progresso scientifico spazza via già dopo 2-3-4 anni la maggior parte o comunque una quota significativa delle acquisizioni precedenti, alcune impostazioni di carattere antropologico possono rimanere valide anche dopo millenni. Mi riferisco in particolare al significato di quanto scritto da Cicerone nel De Senectute sull’angoscia per la morte che consiste in uno spegnersi naturale, come la caduta a terra di un frutto maturo. Diceva ancora Cicerone che la sazietà del vivere porta con sé il momento giusto per la morte e quando arriva la fine, quello che è passato è svanito e rimane solo quello che si è conseguito con le virtù e le azioni giuste.
Sono trascorsi circa 2200 anni da quando sono stati concepiti ed espressi questi pensieri, ma possono essere considerati validi ancora oggi e ci inducono secondo il mio parere a ritenere non del tutto negative le fasi che si avviano alla conclusione della vita. Ma ancora più stupefacente è la validità e l’attualità delle argomentazioni a difesa “dell’imputato vecchiaia” che hanno un valore squisitamente geriatrico. In particolare alla prima critica sulla vecchiaia Catone il Censore/Cicerone ribatte che le occupazioni della mente si addicono agli anziani, per cui non dicono nulla di sensato quelli che li ritengono non idonei a svolgere attività (politica), pur riconoscendo che le occupazioni fisiche sono più adatte ai giovani.
Chi avesse la curiosità di conoscere il pensiero dei più illustri intellettuali e dei più famosi personaggi di tutti i tempi sulla vecchiaia, può leggere un prezioso e abbastanza recente libro del prof. Nicita Mauro, illustre Geriatra, già cattedratico dell’Università di Messina 2.
In questo volume, unico nel suo genere, viene riportata l’opinione sulla vecchiaia, sotto forma di aforismi, di Zarathustra, Platone, Cicerone e così via via fino a quella di Papa Francesco e di Giorgio Napolitano.
Riprendendo il discorso sulla percezione della vecchiaia, possiamo chiederci quale sia lo specifico atteggiamento del Geriatra verso la vecchiaia, se esistano cioè aspetti differenziativi rispetto al Medico in generale od anche a quello che definiamo come” l’uomo della strada.”
Prima di procedere nell’approfondimento dell’argomento, vorrei sgombrarlo da una possibile confusione.
Le riserve sulla vecchiaia della singola persona vanno distinte da quelle riguardanti l’invecchiamento della popolazione, consistente in un aumento percentuale degli anziani rispetto al totale della popolazione stessa e dovuto non solo all’incremento dell’età media di vita, ma alla scarsa fertilità. In sostanza nella popolazione del nostro Paese non solo vi sono molti vecchi (fenomeno positivo perché indicativo di un’età media di vita elevata), ma vi sono pochi giovani perché diminuiscono le nascite, come si verifica nelle Nazioni in declino.
Rivolgendo ancora l’attenzione alla percezione della vecchiaia, in specie da parte del Geriatra, va sottolineato che un punto cruciale riguarda la qualità della vita.
E’ molto diffusa l’opinione che la ricerca dovrebbe essere rivolta più ancora che ad aumentare gli anni di vita, a migliorarne la qualità, pensiero riassunto nella famosa frase “Aggiungere vita agli anni e non anni alla vita”. Il Geriatra ne fa un aspetto centrale della sua disciplina e della sua attività professionale. Infatti la qualità di vita dipende da numerosi fattori, ma uno dei più importanti, la salute ed in particolare la conservazione dell’autosufficienza, coinvolge direttamente il Geriatra, avendo la nostra disciplina promosso ed instaurato una strategia antinvalidante di tipo globale della quale ne ha fatto una vera e propria bandiera.
Anche il primo impatto del Geriatra di fronte a quadri di sfacelo psico-fisico è diverso da quello del medico a scarsa vocazione geriatrica che sarà rivolto ”istintivamente” a comprendere quali malattie abbiano provocato condizioni cliniche così deteriorate. Il Geriatra invece si chiede come sia possibile che un Medico non riesca a contrastare un così vistoso decadimento dovuto non solo alla gravità delle malattie invalidanti presenti, ma anche ad un’ impostazione clinico-assistenziale del tutto inadeguata.
Ovviamente è necessario essere realisti, vi sono malattie che anche se ben curate da tutti i punti di vista (farmacologico, chirurgico, riabilitativo, ecc.) comportano una grave compromissione funzionale, con peggioramento della qualità della vita, ma il Geriatra generalmente non desiste dai tentativi di migliorare la dipendenza e la qualità della vita. Un altro motivo di riflessione sul modo di percepire la vecchiaia da parte del Geriatra riguarda la solitudine che può caratterizzare in negativo il periodo conclusivo dell’esistenza. Il tema è stato analizzato sin dai tempi antichi.
Nell’Ecclesiaste (4,9-12) troviamo scritto: ”Due sono meglio di uno... perché se cadono l’uno rialzerà il suo compagno….se due giacciono insieme avranno caldo, ma come si può avere caldo da soli?”.
Queste parole dell’Ecclesiaste riguardano soprattutto persone avanti con gli anni che avvertono sempre più pressante il bisogno di avere accanto a sé un compagno od una compagna, ma più in generale sono la testimonianza di un’esigenza primaria dell’umanità, quella di avere bisogno degli altri, di non sentirsi soli.
Riferendoci alla società odierna, potremmo dire, anche se con il timore di sembrare semplicistici, che vi è un maggior pericolo di solitudine per il venir meno dell’istituzione familiare e della sua coesione.
La persona anziana può sentirsi ed essere sempre più sola, priva di supporti familiari, esposta senza adeguate protezioni alle intemperie della vita di ogni genere. Si potrebbe invocare l’esigenza di più frequenti e duraturi matrimoni, ma il pericolo di essere considerati fuori dal mondo sarebbe consistente. D’altronde a chi chiedeva a Socrate il consiglio di sposarsi o meno, il grande filosofo rispondeva “Fa ciò che vuoi, tanto te ne pentirai comunque”.
Sul pericolo di essere e sentirsi soli, dobbiamo precisare che esiste una solitudine materiale, molto frequente in vecchiaia ed ancor più frequente se si tratta di donne, a causa della evidente prevalenza della vedovanza femminile.
La solitudine tra i numerosi effetti sfavorevoli ne svolge uno direttamente sulla salute in quanto inibisce di utilizzare al meglio i servizi sanitari, come in occasione di andare da soli alle visite ambulatoriali o di essere ricoverati in ospedale senza essere accompagnato da alcun familiare o di non avere un controllo da parte del coniuge dei medicinali da assumere, ecc.
Un altro aspetto della percezione della vecchiaia che può coinvolgere specificamente il Geriatra riguarda il problema delle perdite della persona, uno dei temi principali della vita umana, riguardante ogni età.
Da bambini si ha paura di perdere i genitori e di rimanere soli, da adulti si ha timore di perdere il proprio coniuge, da anziani è prevalente la paura di perdere la propria vita. In senso generale la vecchiaia viene spesso vista come un complesso di perdite.
Quando si è vecchi si “perde” la vista, l’udito, la capacità sessuale e tante altre funzioni. In realtà queste capacità non si perdono, ma vanno incontro ad una involuzione molto diversa nell’ambito di una comunità sia nella successione dei tempi, sia nella particolare predilezione di una compromissione rispetto ad un’altra nei diversi individui. Inoltre noi Geriatri tendiamo a considerare maggiormente che una modificazione non sia necessariamente una perdita, ma sia semplicemente una modificazione.
Altrimenti dovremmo forse considerare tutti vecchi, come pensano (o pensavano) gli inglesi, facendo presente che il contenuto intracellulare idrico si riduce linearmente dalla nascita alla morte, per cui un bambino di un giorno è un vecchio di un giorno.
Il Geriatra non concepisce la vecchiaia come un complesso di perdite. Piuttosto vede il processo della senescenza come un mirabile adattamento ed una stupenda rielaborazione delle potenzialità della persona.
Tutto questo è vero in senso fisiopatologico generale, ma lo è soprattutto per tutto ciò che concerne le attività del sistema nervoso centrale, che possono presentare non solo conservazione ed adattamenti, ma inaspettati arricchimenti. Sul modo di rappresentarsi la vecchiaia da parte del Geriatra, vorrei aggiungere e ribadire che non vi è un unico modo di concepire la parte finale dell’esistenza, ma numerosi modi. Il prof. Iandolo nel suo ormai datato, ma ancora molto interessante libro “Le due vecchiaie” 3 schematizzava i modi di essere della vecchiaia in due tipologie diverse, la prima essendo caratterizzata dall’abulia, dalla depressione, dalla perdita della salute, dalla rinuncia, dalla tendenza a rinchiudersi in se stessi, dall’emarginazione ed un’altra vecchiaia, a cui tutti noi ed in specie noi Geriatri, dovremmo tendere, caratterizzata dalla sensazione di vivere una fase della vita ancora preziosa, dal desiderio di imparare ancora, dalla capacità di essere autonomi, dal consolidamento degli affetti, dalla consapevolezza di essere tra i protagonisti di quel fenomeno misterioso e meraviglioso che è la vita.
Il Geriatra dovrebbe accettare meglio i cambiamenti dell’età, senza sentirsi sminuito, umiliato o sconfitto e senza che la vecchiaia venga avvertita come un’offesa, un oltraggio. Meno che mai il Geriatra dovrebbe andare incontro a quella forma patologica di paura d’invecchiare, da alcuni definita gerascofobia.
Questa mania, legata ad una mancata accettazione del trascorrere del tempo, può indirizzarsi verso gli aspetti più diversi, come il timore di perdere alcuni requisiti ritenuti propri della giovinezza (vigore sessuale, bellezza, performances fisiche eccellenti, ecc.), oppure l’angoscia verso gli aspetti più avanzati e peggiori dell’invecchiamento (riduzione delle capacità fisiche ed intellettuali o della limitazione della propria autonomia, presenza di malattie degenerative, povertà, abbandono, ricovero in istituto,ecc.) o ancora perdita del potere o della ricchezza.
E’ opportuno ancora precisare che la paura o “mania” di invecchiare può assumere rapporti con altre inclinazioni psicologiche (vedi lo pseudo giovanilismo) o addirittura con altri stati psicopatologici (vedi la depressione).
Nello pseudo giovanilismo la persona tende ad assumere impropriamente gli atteggiamenti degli individui più giovani: si rivolge in maniera ossessiva alle cure di tipo estetico, si sottopone a diete non solo dimagranti, ma in grado (in via molto ipotetica) di conferire una pelle straordinariamente attraente, si accompagna a soggetti dell’altro sesso molto più giovani, veste come un ragazzo o una ragazza, gira con automobili di tipo sportivo o in motocicletta, frequenta spettacoli generalmente preferiti dai giovani (concerti musicali con cantautori, ecc.). Si trasforma senza sospettarlo in una “macchietta”.
Senza troppo generalizzare e senza enfatizzare la figura del Geriatra, ritengo che la decisione di dedicare la sua attività professionale alla cura della persona anziana, comporti più spesso una rappresentazione meno cruda, meno pessimistica, meno deviata, del trascorrere del tempo.
Ovviamente è necessario non fare confronti impropri, nel senso che a 80 anni fisicamente molto spesso si sta peggio che all’età di 20-30 anni, ma per quanto la salute sia un bene primario, non si può attribuire ad essa tutto il significato della vita.
E’ necessario saper individuare altri interessi, altri valori. In vecchiaia si può continuare a crescere sul piano dell’esperienza, della conoscenza di sé, degli altri, dell’ambiente, delle cose del mondo, delle potenzialità ad esprimersi in modo più indipendente.
Gli anziani generalmente sono meno coinvolti nel mondo produttivo e nelle relazioni sociali e conseguentemente sono meno esposti anche per questo motivo ai loro effetti stressanti o addirittura angosciosi. In sostanza se è vero che la vecchiaia non è una fase della vita di grandi passioni e questo fatto può costituire un suo grosso limite, ha anche il vantaggio di non essere più al centro delle tempeste emotive, potendo quindi guardare alla vita con sereno distacco. Ovviamente non sempre si riesce ad acquisire questo stato d’animo. I rimpianti possono rendere ancor più amara la vecchiaia, ci si può tormentare per quello che non si è avuto o si è perduto ed anche per quello che non si è potuto o voluto fare, come afferma il noto scrittore nonagenario Andrea Camilleri.
Un’ultima riflessione desidero fare su come si pone il Geriatra di fronte alla conclusione della vecchiaia e della vita nella sua casa o in Istituto.
E’ noto che la stragrande maggioranza delle persone preferisca la propria casa come il suo domicilio abituale 4. Ma questa motivazione ha nel Geriatra una precisa motivazione professionale e non esclusivamente solidaristica. L’accesso delle persone anziane ai ricoveri a degenza 9 protratta o permanente non è casuale ed è determinata dalle maggiori difficoltà di gestire in casa un paziente anziano reso invalido non solo dalla presenza di malattie disabilitanti, ma anche da una strategia assistenziale ed antiinvalidante non all’altezza della situazione.
Infine noi tutti, ma soprattutto noi Geriatri, dovremmo considerare la nostra casa non tanto come l’edificio in cui siamo nati, ma come il luogo degli affetti, che ci ha accolto quando siamo venuti al mondo, dove abbiamo fatto la prima esperienza di essere amati da qualcuno (i genitori) ed anche il luogo da dove ciascuno di noi parte per il suo viaggio nella vita che si concluderà con un ulteriore viaggio, il più lungo, quello definitivo 5.

Bibliografia

1. Palleschi M.: Impariamo a vivere, Impariamo a invecchiare. Editoriale 50&Più, Roma,2005.
2. Nicita Mauro V.: Pensieri e Consigli per la terza età,Rubbettino,2014.
3. Iandolo C.: Le due vecchiaie. Armando Armando Editore, Roma, 1982.
4. D’Amico F.: Il ritorno a casa dopo il ricovero. Geriatria 2006;18 (Suppl.):119-123.
5. Asioli F.: Difficoltà e dubbi nella relazione con il paziente affetto da demenza. Psicogeriatria 2013;1:10.