Editoria

Speranza di vita ed efficienza della persona anziana

12.04.2021
Sigot

Prof. Massimo Palleschi

In Geriatria è molto conosciuta l’espressione “Aggiungere vita agli anni e non anni alla vita” che si fa risalire al premio Nobel per la Medicina, Alexis Carrel.
Il concetto implicito in questa frase potrebbe non essere del tutto condiviso nel senso che durata e qualità della vita non sono alternative e più in particolare le popolazioni che godono di un notevole benessere sono le stesse che vivono più a lungo.
In Biafra e in Nigeria l’età media di vita è bassa e non si sta neppure molto bene, mentre in Italia e in Svezia tanto per fare un esempio possiamo fare affidamento ad una vita migliore e di maggiore durata.
Queste brevissime considerazioni rimangono valide se nel binomio qualità della vita/durata della vita sostituiamo il primo termine con quello di efficienza od anche di stato funzionale della persona.
E’ noto che l’efficienza di un soggetto, ad esempio la performance fisica misurata attraverso una batteria di test (Short Physical Performance Battery) è fortemente indicativa del rischio di mortalità, oltreché di disabilità e istituzionalizzazione, ma i rapporti tra queste due condizioni (stato funzionale e durata della vita) sono quanto mai complessi e in clinica non sempre è facile riscontrare una correlazione evidente tra un singolo quadro disabilitante e la prospettiva di durata della vita.
Nell’elaborato cercherò se non di analizzare, almeno di individuare alcuni aspetti attinenti al problema.

Una prima osservazione riguarda l’apparente contraddizione tra la maggiore longevità della donna e la più frequente tendenza all’ invalidità.
E’ noto infatti che le donne hanno una vita più lunga degli uomini di circa quattro anni e mezzo in Italia, ma presentano una maggiore frequenza di malattie invalidanti e di compromissione dell’autosufficienza.
Significativo al riguardo è l’andamento della frattura del femore, una delle cause più frequenti di disabilità nell’anziano, oltreché di mortalità.
Si afferma che la frattura del femore è prevalente nella donna per la presenza di un’osteoporosi più frequente, più precoce, più grave.
Senza dubbio questa è la ragione fondamentale, ma concorre al fenomeno anche la maggiore tendenza alle cadute nel sesso femminile ed anche a cadute più rovinose cioè verificatesi con minori misure di contrasto sulle conseguenze della caduta stessa.

Non si conosce se il minore equilibrio e la ridotta coordinazione neuromotoria riscontrabili nel sesso femminile siano da attribuire a fattori di tipo genetico od anche a ragioni di tipo ambientale come la scarsa consuetudine ad attività fisiche e lavorative particolari(che implicano un maggior pericolo, ma anche la messa in atto di meccanismi protettivi) o come l’uso di calzature non idonee.

Nel tentativo di spiegare una più frequente e grave invalidità nella donna (non solo per la prevalente frattura del femore), a fronte di una maggiore vitalità che le permette una vita più lunga, non mancava chi pensasse ad una non univocità nei due sessi dei meccanismi impliciti nella conservazione dell’autonomia ed in quelli più direttamente coinvolti nel mantenimento della vita.
Questa impostazione semplicistica non aveva alcuna base scientifica ed infatti non la si trova oggi in alcun contributo della letteratura, potrebbe al limite trovare nuova linfa dalle ricerche nell’ambito della Medicina di genere.
Il problema dei rapporti tra lo stato funzionale e la durata della vita si presenta in clinica in maniera contraddittoria,anche al di là delle differenze di genere.
Infatti accanto a elementi che depongono per l’importanza dello stato funzionale nei riguardi della sopravvivenza, è relativamente frequente il riscontro di soggetti che vivono a lungo in condizioni di grave precarietà funzionale.
Nella stessa demenza di Alzheimer, anche se la sopravvivenza media è significativamente inferiore a quella dei controlli, non raramente si continua a vivere a lungo in pessime condizioni funzionali psico-fisiche.
I rapporti tra stato funzionale e speranza di vita sono stati oggetto di attenzione anche in ambito chirurgico.
Non è sicuramente dimostrato se il maggior rischio chirurgico in età senile sia presente di per sé per l’età avanzata od invece per il fatto che ad un’età avanzata sia più frequente riscontrare alterazioni funzionali responsabili di un’aumentata vulnerabilità.
Secondo alcuni lavori, i soggetti giovani ed anziani non presentano un rischio chirurgico significativamente diverso se hanno condizioni funzionali analoghe.

Anche una ricerca canadese della geriatra Jennifer Watt e coll.
(1) orienterebbe nel senso appena detto.
Infatti una revisione ed una metaanalisi di 44 lavori sulle complicanze operatorie non ha evidenziato un rapporto significativo tra queste e l’età anagrafica dei pazienti, mentre è risultata molto più incidente la presenza di disfunzioni, come quella cognitiva.
Un aspetto della clinica nel quale è particolarmente evidente la correlazione tra stato funzionale e capacità di sopravvivenza è rappresentato dalle malattie cardiovascolari : il riferimento specifico è alle famose quattro classi funzionali di Nyha dello scompenso cardiaco.
Dal significato essenziale di questa classificazione deduciamo che due pazienti con malattie cardiache molto diverse, ma con lo stesso grado di compromissione funzionale, (ad esempio cuore polmonare cronico e stenosi mitralica) possono avere una prognosi molto simile, al contrario di due soggetti con la stessa malattia, ma in condizioni funzionali molto diverse.
Da questo esempio possiamo presumibilmente dedurre che il rapporto tra stato funzionale e durata della sopravvivenza sia più stretto quando ci riferiamo a funzioni vitali (funzione cardiaca, funzione renale, funzione polmonare, ecc.
), mentre i rapporti sono più complessi e incerti quando il decadimento funzionale riguardi la funzione muscolo-scheletrica e quella psichica, quando cioè viene compromessa più propriamente l’efficienza della persona.
E’ questo il settore di interesse più strettamente geriatrico.
La valutazione geriatrica multidimensionale ha indubbiamente contribuito a chiarire i rapporti tra stato funzionale e salute generale e quindi possibilità di sopravvivenza, ma potrebbero essere utili anche studi sistematici di confronto tra sopravvivenza di soggetti differenti solo per una singola performance funzionale.
Sarebbe istruttivo ad esempio analizzare la mortalità di quanti non siano in grado di deambulare o lo siano per 10 o per 50 o per 100 metri, come pure di mantenere la posizione ortostatica per 15,30,60 secondi o non mantenerla affatto.
Non frequenti risultano le indagini in questo ambito, anche se molto studiati sono stati i rapporti tra velocità del cammino e sopravvivenza.
Dopo il lavoro pioneristico dI Frield (2), alcuni contributi (3,4,5) hanno ribadito l’importanza dell’efficienza della deambulazione ed in particolare della velocità del cammino nel predire una maggiore sopravvivenza.
La letteratura è ricca sul tema di come un diverso regime di attività fisica incida sull’insorgenza di malattie e sulla longevità, ma si tratta di un argomento diverso da quello sottolineato in questo articolo.

Bibliografia
1. Watt J., Tricco A.C., Talbot-Hamon C. et al., BMC Medicine, 2018.
2. Fried LP., Tangen CM., Walston J. et al.: Cardiovascular Health study Collaborative Research Group Frailty in older adults: evidence for a phenotype. J Gerontol A Biol Sci Med Sci 2001;56:M 146-156. 3. Liu MA, DuMontier C., Murillo A. et al.: Gait speed, grip strength,and clinical outcomes in older patients with hematologic malignancies. Blood 2019;134:374-382.
4. Hardy S.E., Perera S., Roumani Y.F. et al.: Improvement in Usual Gait Speed Predict Better Survival in Older Adults. JAGS 55 :1727-1734,2007.
5. Studenski S., Perera S., Patel K. et al.: Gait Speed and Survival in Older Adults. JAMA, 305:50-58,2011.